"Riscoprire e far conoscere la storia orologiaia della Valle, storia fatta di legami sociali, di paese e di migrazioni, di confronti e incontri, di passione e di tenacia. Tradizione e innovazione per creare futuro ai giovani, ancorandoli alle loro radici" - Mission AOP

Autore: Nemo Gonano

Anche se chi scrive vive fuori da molti anni, si considera sempre un pesarino. Qui sono le sue radici, quelle dei suoi nonni, bisnonni e trisavoli, qui sono sepolti i suoi genitori, i fratelli, le loro spose, Franca e suo figlio Nicola. Ma oltre ai parenti, lui spessissimo ricorda altre persone che ha conosciuto. Tante. Molte di più di quelle che oggi vi abitano. Molte volte quando non dorme passa mentalmente in rassegna le case del paese e le persone che vi abitavano. Ricorda i volti, le loro espressioni, quello che magari gli avevano detto. E’ una specie di dialogo come fossero ancora tra noi, in qualche modo rivivono. Ed è una cosa bellissima. Dice bene il poeta dei Sepolcri: “celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è degli umani”. Un privilegio grandioso per cui noi “viviamo” con chi non c’è più e loro con noi.

Per ragioni anagrafiche lui è ormai tra i pochi testimone di tempi passati. Quelli di prima e dopo gli anni cinquanta. Com’era la vita allora in paese? Il lavoro degli uomini era prevalentemente quello di boscaiolo e diverse erano le famiglie che vivevano di quell’attività, vi era anche qualcuno che appaltava i lavori, ma erano un rarità. Per i più fortunati c’era la fabbrica degli orologi, uno-due i commercianti, uno l’impiegato di posta, uno-due gl’insegnanti.

E le donne? Le donne si occupavano fuori casa soprattutto della campagna. Lo sfalcio dei prati e la raccolta del fieno, il governo della stalla con la mucca, il maiale, le galline, le pecore. Poi nella stagione giusta la semina e il raccolto delle patate e dei fagioli. Se viene in mente l’immagine della donna carnica di quel tempo è quella di lei con la gerla carica sulla schiena, un bambino o due attaccati alla gonna. In casa la donna continuava anche la sera a lavorare, a badare ai bambini, a fare “scarpèts”, calze, maglie, per tutta la famiglia. Brave. Tutte. Anche quelle che volevano uscire dai lavori faticosi imparando un mestiere, quello di sarte. E anche quelle, coraggiose, che avevano lasciato il paese ed erano andate a servizio presso famiglie signorili a Torino, a Milano, a Firenze, a Roma.

In ogni casa spendere poco era una necessità e non c’erano grandi differenze nel modo di vivere tra una famiglia e l’altra. Un vestito nuovo una volta all’anno, a Natale o a Pasqua e le scarpe si facevano risuolare.

Come era possibile pensare di mutare il modo di vivere? Era stato così da un tempo immemorabile, una specie di destino. Per fare un salto in avanti, per uscire da una vita così minimale bisognava andare fuori, in città, dove c’erano scuole superiori, qualificarsi per lavori più complessi e quindi meglio retribuiti ma l’ostacolo dei mezzi economici insufficienti era insormontabile. Qualche giovane di particolare buona volontà aveva tentato di risolvere il problema iscrivendosi a una scuola per corrispondenza che costava molto poco. Si trattava delle Scuole Riunite con sede a Roma, via Arno,44. Mandavano a domicilio per posta le “dispense” da studiare. Si rimandavano, sempre per posta, i compiti svolti per la correzione. Il Parroco del tempo, Don Natale Andreussi, ospitava quei volonterosi in canonica e li aiutava per quel che poteva nello studio. Alla fine però dovevano sostenere gli esami nelle scuole pubbliche. Da “privatisti” e le commissioni erano particolarmente severe. Qualcuno ce l’aveva fatta, ma era una eccezione. (Anche due fratelli di chi scrive erano ricorsi a questa via).

In realtà c’era poco da fare. Chi voleva tentare la fortuna, cambiare in meglio la propria vita, aveva solo una strada. Quella di andare all’estero. Era stato così anche nel passato. Sempre si era emigrato. Da tempi lontani. Dapprima nella vicina Austria, poi in Sassonia, in Romania, in Baviera. Era un’ emigrazione stagionale ma sostanzialmente povera. Quella che, in tempo di elezioni un giovane contestatore locale aveva preso in giro scrivendo e appendendo in piazza un manifesto che diceva: “Votàit par Valle o votàit par Spinòt, quant ca ven chesta primavera a su tòcia fa fagòt” (Valle e Spinotti erano i due candidati contrapposti).

Poi era seguita un’altra emigrazione, quella stabile, quella definitiva. Per gli Stati Uniti e per l’Argentina. Era il tempo della canzoncina “mamma dammi cento lire che in America voglio andar”. Negli anni di cui stiamo discorrendo si era soprattutto intensificata l’emigrazione per la lontana Australia. Qui rimanevano pochi uomini e per il resto donne che, oltre ai lavori dei campi dovevano attendere ai bambini e alle… suocere.

Quanti nomi di emigrati potrei fare. Ce n’erano in ogni famiglia. Anche tra quelle che passavano per benestanti, per esempio quelle di comproprietari della fabbrica degli orologi (andati chi negli Stati Uniti chi in Argentina), oppure quella della maestra Bruseschi (i cui figli erano andati in Australia), o quella del maestro di Matiùsa (figli in Argentina), di Zuànt da Bas (figlie in Australia), più tardi erano partiti per l’Argentina anche Tarcisio e Vigi di Filip.

Impossibile fare tutti i nomi. Spesso erano addii struggenti, dolorosi. Si sapeva che difficilmente avremmo più rivisti quei cari compaesani. Dopo alcuni anni era ritornata anche l’emigrazione stagionale nei Paesi europei. Svizzera, Belgio, Lussemburgo. Paesi che davano all’Italia carbone, essenziale per mandare avanti l’economia. Quell’emigrazione infatti non è servita solo agli emigrati e alle loro famiglie ma, senza esagerare, a tutta l’Italia.

A volte chi scrive si è trovato a riflettere su una circostanza molto singolare verificatasi in paese in anni ormai lontani. Quella di ben quattro vocazioni religiose in un piccolo paese. Un evento che ritiene non sia accaduto da altre parti. Come mai?

Naturalmente non lo sa. E non lo sanno altri. Le motivazioni di scelte così personali, così impegnative, le conoscono solo i diretti interessati. Solo loro sanno cosa è passato nelle loro menti, quali riflessioni hanno fatto nel loro intimo. Lui si limita a qualche considerazione derivata dal conoscere loro e le loro famiglie.

Anna Palman, ad esempio. Noi la chiamavamo Anuta di Filip o Anuta dal maestri.

Perché suo padre era appunto il maestro Filippo. Era religiosissimo. Sempre in chiesa nel terzo banco dalla parte della sacrestia. Da giovane si era avviato agli studi in seminario, poi aveva fatto il militare nella guerra 15-18, in seguito aveva formato famiglia e si era dato all’insegnamento. Per dire di che stampo fosse e quindi che tipo di educazione desse ai figli, a chi scrive sovviene un piccolo ma significativo ricordo personale che qui riferisce.

Era diventato, ed era molto giovane, direttore di scuole mentre il maestro Filippo era agli ultimi anni d’insegnamento. Ebbene, ci credereste? Si erano incontrati e il maestro gli si era rivolto chiamandolo “Signor direttore” e dandogli del “lei”. Lui era rimasto confuso e aveva protestato, ma non c’era stato niente da fare : “eh, no, mi permetto di insistere, lei è laureato, ha superato concorsi difficili, è direttore, ed io ho il dovere di chiamarla per quello che è”. Aveva provato a replicare ma il maestro Filippo era stato fermo. “No, lei è direttore e io così mi rivolgo a lei. Se le cose non stanno al loro posto il mondo va alla rovescia. Le regole sono le regole”. Incredibile. In un paese dove ci si dà tutti del “tu” e tutti si chiamano per nome.

A questo punto non vi pare plausibile pensare che la religiosità di Anuta dal maestri e la sua scelta di vita possa esserle derivata o per lo meno influenzata, anche dalla religiosità e dal senso e delle “gerarchìe” che aveva suo padre?

Mons. Tito e Suor Chiara.

La famiglia dove ci si forma è fondamentale, secondo il detto “la s-ciela na va lontana dal ciòc” (anche se fior di psicologi dicono che a volte per spirito di ribellione si intraprendono strade del tutto diverse). Alfeo aveva una sua religione ed era quella del lavoro. Risolveva molti dei problemi che si presentavano in fabbrica e poi, giunto a casa, continuava a lavorare in un stanza al primo piano aggiustando tutte le sveglie, gli orologi da taschino o da polso che la gente gli portava. Con la stessa buona volontà andava con la moglie Dorina a sfalciare i prati di famiglia. Non aveva nemmeno disdegnato, assieme al fratello Ciro, lui che era il contitolare della fabbrica, il “paron” come allora si diceva, di adattarsi a portare con la “silviera” i sassi necessari per ampliare la fabbrica. Chi scrive a volte pensava: il grande impegno di Don Tito nello svolgere le sue funzioni e per cui era molto apprezzato dai suoi Superiori, da dove derivava? E nella specifica scelta di vita non poteva esserci stato per lui un ideale filo di collegamento con i numerosi “prèdis Cappellari da Taina”? In fondo quelli erano suoi diretti ascendenti perché sua madre, la saggia e pia madre Dorina apparteneva proprio a quella famiglia.

Era con queste persone che Tito e Chiara erano cresciuti.

Mario Cleva

Mario era rimasto da piccolissimo orfano di madre. Non l’aveva conosciuta. Poi per un evento doloroso che qui non è il caso di ricordare era rimasto ancora bambino orfano anche del padre. Una situazione gravissima se qualcuno, i parenti della madre non si fossero fatti avanti. Orfani di entrambi i genitori, i due fratelli Mario e Luciano non erano infatti stati lasciati soli. La zia materna Amabile aveva messo Luciano a bottega dal figlio Michele e suo marito, Toni dal Tut, gli aveva dato i soldi per andare in Australia. L’altra zia materna, Lucia, aveva portato con sé a Torino Mario dove poi lui era entrato in Seminario. Successivamente si era fatto Missionario e si era dedicato nella lontana America latina, a dare conforto e formazione professionale a dei poveri ragazzi abbandonati. Sfortunati, com’era stato sfortunato lui. Dava a loro in qualche modo ciò che aveva avuto dalla bontà delle zie.

Sandro Solari

E Don Sandro? Era figlio di Lino da Paronuta, lavoratore bravo, “pater familias” avveduto. In verità Lino desiderava che l’unico figlio maschio, potesse studiare, elevarsi nella scala sociale, svolgere lavori fisicamente non faticosi. Un desiderio più che legittimo. Veniva spesso a trovare il padre di chi scrive (erano anche figli di sorelle).

Anche qui un ricordo personale.

Un certo giorno era venuto a casa e precipitosamente aveva detto: “Vigi, ti devo parlare di una cosa importantissima. Lascia il tuo lavoro e ascoltami. E di botto aveva esclamato: “Sai cosa ti devo dire? Mio figlio vuole farsi prete”.

I due si erano appartati. Che cosa si siano detti chi scrive non lo sa, ricorda però che Lino era uscito da quel colloquio rasserenato e tuttavia dicendo: “Però se doveva essere qualcuno da dare alla Chiesa avrei preferito che fosse una delle sue sorelle a farsi suora”.

Qualche anno dopo, Sandro era ormai prete da un pezzo, raccontando di come durante la guerra del 15-18 avesse corso il pericolo di vita, Lino sorridendo aveva detto: “Vigi, sai che qualcuno mi ha detto che era destino che non dovessi morire, perché era stato il Padreterno a salvarmi perché dovevo diventare padre di un ministro di Dio”? L’altro, non credente, gli aveva risposto sorridendo: “Vedi Lino, o Dio, o la Provvidenza, o il Destino, chiamali come vuoi, le cose sono andate come dovevano andare. Quello che è importante è che adesso tu sei contento, è contenta tua moglie e le ragazze. E soprattutto è contento tuo figlio perché la vita, Lino, è la sua”.

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Giovanni Battista e Remigio Solari - APS

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